Situata in via Umberto I, questa chiesa nacque come Oratorio dei Tomitano, nobile famiglia di origine feltrina giunta a Oderzo agli inizi del 1500 per intraprendere lavori di bonifica e inalveazione del fiume Monticano.
Fra due palazzi di proprietà, i Tomitano eressero l’oratorio verso la fine del 1600, dedicandolo inizialmente al Beato Bernardino, frate predicatore.
La chiesa fu impreziosita, nel 1682, da una Insigne Reliquia di San Giuliano Martire.
Rimasta di proprietà dei Tomitano fino al 1903, viene lasciata con testamento all’Ospedale di Oderzo, da cui fu alienata nel 1909 e in seguito trasformata in bottega; l’altare, la Statua del Beato e la suppellettile venivano trasportati verso l’ospedale.
Nel corso del 1939, sotto la proprietà dei discendenti Tomitano, ne viene curato il ripristino: soffitto, finestre, cornici, pavimento e portale furono rifatti, inoltre l’ospedale restituì l’altare, la statua in marmo di Carrara e la suppellettile insieme a quattro quadri dipinti su tela, dei quali uno rappresenta il Beato Bernardino.
In seguito al piccolo incendio che ha interessato la chiesetta la sera del 1° novembre 2008, una parete è risultata annerita e la copia di un quadro raffigurante S. Chiara è andato distrutto.
Situata nella omonima contrada, nei pressi dell’argine del fiume Monticano e la strada del “Gorgazzo”.
Nulla si conosce di preciso circa la data della sua edificazione.
Ogni 21 novembre il borgo in via Gorgazzo si anima con una sagra per festeggiare la Madonna della Salute in ricordo della fine della terribile pestilenza diffusasi in tutta Europa nel XVII secolo. Nella facciata sono incise queste parole: SALUS INFIRMORUM ORA PRO NOBIS, che attestano la dedicazione della chiesa alla Madonna.
Il culto della Madonna della Salute probabilmente si può collegare alla presenza di un lazzaretto nel borgo (odierna casa dei sette camini). Si ritiene che la costruzione della chiesa rappresenti un ex voto alla Madonna da parte degli opitergini per la liberazione dalla peste che nel 1647 decimò la popolazione.
La chiesa si presenta a pianta rettangolare, ad un’unica navata. Nel 1984 circa, sotto la direzione di Don Antonio Costella, la chiesa subisce un intervento di restauro.
Il Duomo, dedicato a San Giovanni Battista, conserva numerose opere di pregio degli artisti più rinomati del periodo della Repubblica di Venezia, tra cui Palma il Giovane, Pomponio Amalteo ed Andrea Bellunello.
Costruito sulla parte più alta della città, il Duomo sembra sovrastare la piazza con la sua austera eleganza. Non sappiamo a quando risalga la sua prima costruzione, ma ci sono informazioni sull’edificio già nel XII secolo. Gli opitergini gli sono da sempre molto
affezionati, per quanto contiene ed ancor di più per quello che rappresenta. All’interno sono custodite diverse opere di artisti veneti e friulani, tanto da essere ritenuto “quasi una pinacoteca”: molte tele infatti si trovano lungo le pareti. In navata destra si osservano tre grandi tele commissionate nel 1548 al friulano Pomponio Amalteo, per completare il monumentale organo a “portelle”, oggi sostituito da un Mascioni completamente meccanico. Sul lato opposto un’opera della Scuola del Tintoretto, descrivente Giovanni Battista che battezza Gesù al Giordano, è inserita in una pregevole cornice intagliata secentesca. Nella Cappella del Santissimo Sacramento si ammirano la Discesa dello Spirito Santo di Palma il Giovane (1610 ca.), opere del Martina e l’altare
attribuito al Sansovino. Proveniente dai portici della città è l’affresco della Madonna in trono con Bambino, attribuito ad Andrea Bellunello (1473) ed oggi visibile nella Cappella
della Madonna. Tra le finestre di trova una tela con San Sebastiano, voluta come ringraziamento per la fine dell’epidemia di peste del 1631. Il Duomo è ricco di dettagli ed opere che raccontano vissuti di fede e civili della città, come il grande affresco della controfacciata, che testimonia secoli di storia attraverso simbologie facilmente
comprensibili.
Altri lacerti d’affresco testimoniano un periodo nel quale le pareti erano completamente affrescate, prima degli interventi successivi. La Diocesi di Oderzo fu fondata tra IV e V sec. e comprendeva un territorio molto vasto, che andava dalle Prealpi Prealpi al mare. A ricordare l’antica storia della Cristianità ad Oderzo, ai piedi dell’Altare Mensa si può ammirare un mosaico romano proveniente dagli scavi di metà ‘900.
La Biblioteca, servizio di base e primo punto di accesso del cittadino all’informazione ed alla documentazione, contribuisce ad accrescere la consapevolezza dell’eredità culturale e a trasmetterla alle generazioni future. Nel 1999 l’artista opitergino Tullio Vietri, la Sig.ra Anna Maria Reggiani e la Sig.ra Silvia Vietri Giso, hanno effettuato la donazione modale al Comune di Oderzo di 163 opere dell’artista, realizzate in momenti diversi e in tecniche varie. I lavori sono esposti a rotazione nella collezione permanente allogata nell’omonimo Museo Tullio Vietri collocato presso la Biblioteca Civica, e sono stati oggetto di pubblicazione da parte del Comune stesso.
A questa prima donazione, si aggiunge per volere testamentario dell’Artista, un Legato a favore del Comune di Oderzo, avente per oggetto le sue opere pittoriche, i libri della biblioteca personale e l’archivio della rivista Critica Radicale.
A Piavon di Oderzo, in via Frassenè, esiste uno dei rari Casoni della provincia di Treviso, un’abitazione rurale povera, con molti secoli di storia alle spalle ( 300 o forse 400 anni ). Chi iniziò ad abitare il Casòn non è possibile saperlo. Conosciamo la vita del Casòn dal 1934 quando vi soggiornò la famiglia di Giovanni Bertola con la moglie Maria e i loro tre figli. Nel 1940 vi andò ad abitare il signor Angelo Pasqualinotto detto Tati con la moglie Giustina Furlan e la figlia Adriana. Il marito lavorava come bracciante agricolo presso l’azienda agraria della baronessa Lilli Rechsteiner. Dal 1962 vi dimorò il signor Giuseppe Pasqualinotto con la moglie Vittoria Lorenzon. Nel 1966 muore Giuseppe e così il Casòn rimase definitivamente disabitato. Nel 1982, mediante una permuta con l’azienda agricola Rechsteiner, il Comune di Oderzo diventa proprietario del Casòn.
La Storia, quella dei grandi eventi, che si studia sui libri, rimane spesso una conoscenza meramente scolastica. Solo approfondendo la conoscenza dell’ambiente intorno a noi scopriamo i collegamenti fra la Storia, con la S maiuscola, e le vicende del territorio in cui abitiamo; e sono soprattutto gli edifici delle diverse epoche storiche che ci possono aiutare a cogliere tali collegamenti: i castelli, le città murate, le case. Il Gruppo Amici del Casòn di Piavon su finanzimento del Comune di Oderzo, dopo l’accurato restauro del 2001, si è impegnato in un restauro a scadenza quinquennale e ha allestito al suo interno il Museo etnografico con il “materiale storico dei casoni” donato dai cittadini di Piavon e della zona della Sinistra Piave.
Il Museo di Storia Naturale “Brandolini Giol”, fondato nel 1938, riunisce una raccolta geologica (collezione Brandolini), una ornitologica (collezione Giol), materiale etnografico (proveniente dall’Ecuador) e reperti archeologici, scoperti principalmente nel territorio veneto.
Il Museo è nato nel giugno del 1996 e gestito dall’Ape Club Opitergium, che ha poi donato tutto il materiale apistico al comune di Oderzo, diventando così il primo museo pubblico del settore in Italia. La struttura accompagna il visitatore grazie anche all’aiuto di illustrazioni e stampe, nella conoscenza delle arnie razionali antiche e moderne, dei bughi, arnie irrazionali, e degli strumenti creati per proteggere e migliorare le condizioni di vita delle api (smielatore, escludi regina, affumicatore, nutritore, apiscampo, ecc.). Obiettivo del museo è promuovere e divulgare la cultura dell’ape, sia per il valore nutrizionale dei suoi prodotti che per la sua importanza nell’impollinazione dei fiori.
Entrando nel Museo, si ha subito la sensazione di essere proiettati in uno spazio dove il vissuto delle generazioni passate e la trasmissione del sapere si incrociano in un linguaggio universale: il linguaggio dell’arte.
Arte che si esprime in piccoli capolavori importanti, perché eseguiti da autori di assoluta maestria, ma più ancora perché continuano a narrare la storia della Salvezza.
Davanti a quanto contenuto in Museo non ci si può solo soffermare sullo stile o sulla forma, ma viene naturale interrogarsi su quanto l’opera esprima. Tra le finalità di un Museo questa è forse la più importante perché è la maggior fonte di diffusione di cultura e di “bellezza”.
Nell’itinerario museale sono presentate opere e suppellettile liturgica, databile dal XVI al XX secolo, tra le quali si notano:
Ciclo di cinque dipinti con Storie della vita di san Giovanni Battista (1546), olio su tela, di Pomponio Amalteo: queste opere, fino al 1920 erano situate sulla cantoria dell’organo del Duomo. I dipinti raffigurano:
Nascita di san Giovanni Battista;
Predica di san Giovanni Battista;
Decollazione di san Giovanni Battista;
Testa di san Giovanni Battista al banchetto di Erode Antipa.
Noli me tangere (fine XVI – inizio XVII secolo), attribuita al pittore fiammingo naturalizzato italiano Ludovico Pozzoserrato.
Crocifissi lignei (prima metà del XVIII secolo) della scuola di Andrea Brustolon.
“Solo i veri grandi artisti non invecchiano, perché sono capaci di rinnovarsi e inventare nuove forme, nuovi colori, invenzioni genuine.”
Così scrive Alberto Martini nella sua autobiografica “Vita d’Artista” (1939-40), aggiungendo che : “…l’invenzione genuina risulta incomprensibile a chi non ha senso dell’eroico. Pochi privilegiati la possono intuire, gli altri, impotenti, con maligne arti la combattono. In questo caso si tratta di oscurantismo…”. Queste poche righe riassumono la delusione e l’amarezza dell’artista nei confronti dell’avversa, o quanto meno indifferente, critica italiana, che, a partire dagli anni Trenta, non vuole, o non sa, riconoscerne l’originalità e l’autonomia creativa. Probabilmente gioca a sfavore dell’artista anche la difficoltà da parte degli studiosi di ricondurne l’operato ad uno specifico ambito espressivo. Martini stesso ribadisce che la sua arte “ vera” non ammette etichette, anzi: “Volta a volta […] sono simbolico, romantico, macabro […] Fui e sono a volte verista a volte surrealista, come tutti i veri artisti del passato.
A parte il saggio di A. Belloli, una certa incomprensione pare minare la fortuna critica dell’artista anche dopo la sua scomparsa, avvenuta l’8 novembre 1954. Non compaiono infatti altri contributi critici significativi fino all’intervento di G. Marchiori sul catalogo della mostra antologica che Oderzo finalmente dedica al grande maestro opitergino nel 1967. La manifestazione, patrocinata dal Comune e proposta da Arturo Benvenuti, segna idealmente l’atto di nascita della Pinacoteca anche grazie alla prima preziosa e significativa opera ricevuta in dono dalla vedova Maria Petringa: l’ Autoritratto (1911). Qualche anno più tardi altri 80 pezzi vanno ad unirsi al primo e, nel 1970, l’Amministrazione Comunale istituisce ufficialmente la Pinacoteca Alberto Martini che trova sede provvisoria presso il Municipio.
Altri lasciti piuttosto cospicui (ancora Petringa, poi Anderloni e Tischer, eredi Martini) contribuiscono quindi a incrementare la collezione che oggi conta 455 opere, mentre vengono promosse nuove pubblicazioni curate da A. Benvenuti, G. Marchiori, P. Bellini, M. Lorandi, si arricchisce la bibliografia martiniana e si organizzano mostre monografiche sull’artista. Contemporaneamente vengono acquisite anche opere di altri pittori (tra cui Giuseppe ed Enrico Vizzotto Alberti, Giulio Erler, Ciro ed Eugenio Cristofoletti, Armando Buso, Gina Roma) che daranno vita alla Galleria dei pittori opitergini. In seguito (1974) la Pinacoteca trova sede al piano nobile del Palazzo di via Garibaldi oggi Biblioteca Comunale fino a quando, nel 1994, la collezione passa alla sede attuale: l’ultimo piano di Palazzo Foscolo. Al termine del mandato di Arturo Benvenuti, la direzione dell’ente passa a Gina Roma che avvia la catalogazione del patrimonio iconografico martiniano e concepisce la prima delle quattro fortunate edizioni della Biennale Nazionale di Incisione intitolata al maestro opitergino. Le attività di schedatura e studio martiniani proseguono poi sotto la guida di Roberto Costella, sostenitore, tra le altre iniziative, dell’istituzione della citata Galleria dei pittori opitergini e dell’ acquisizione del fondo dell’artista opitergino Tullio Vietri. Le attività di ricerca, valorizzazione e tutela delle opere di Martini continuano quindi con Cristina Pillitteri per passare, in fine, all’attuale gestione.
Il museo archeologico di Oderzo viene aperto al pubblico nel 1881 e ha oggi sede nella Barchessa di Palazzo Foscolo. L’esposizione presenta i reperti restituiti dal territorio e dalla città, già in antico al centro di traffici e commerci tra l’area euganea, l’area alpina e l’area veneto-orientale.
Il percorso espositivo si sviluppa cronologicamente a partire dalla sezione dedicata al periodo preromano, che offre una ricca documentazione riferibile all’abitato Veneto: testimonianze epigrafiche in lingua venetica, bronzetti votivi, due eccezionali terrecotte zoomorfe e la bardatura in ferro e bronzo che accompagnava la sepoltura di un cavallo. La restituzione tridimensionale degli scavi cittadini guida il visitatore alla conoscenza della romana Opitergium e costituisce la naturale prosecuzione di un percorso che si sviluppa dal cuore della città fino al museo.
La sezione romana del percorso accoglie i ritrovamenti restituiti dagli scavi di alcuni pozzi romani, monumenti lapidei provenienti dalla necropoli opitergina, insieme a corredi funerari di pregio e a una preziosa collezione di bronzetti e suppellettili domestiche.
Concludono il percorso i mosaici policromi tardo antichi, che decoravano la pavimentazione di una ricca domus cittadina.
Inaugurata il 24 giugno 2021, la Collezione Attilia Zava – Museo del Vetro d’Artista, aumenta il patrimonio artistico che troviamo a Palazzo Foscolo.
Nel 2011, Attilia Zava donò alla città di Oderzo, dove è nata, la propria collezione composta da trenta sculture in vetro e un gruppo di altrettanti disegni, stampe e dipinti. Tutte opere nate dalla mediazione di Egidio Costantini, persona animata da un grande desiderio di innovazione, tra artisti e maestri vetrai. Fu lui stesso a indirizzare la signora Zava verso la raccolta delle prime opere in vetro, che poi lei ha continuato aprendo anche ad altri ambiti espressivi. La sua Fucina degli Angeli ha rappresentato un appuntamento veneziano per Picasso, Arp, Ernst e molti altri artisti attivi nel fervore culturale della città.
Il palazzo, tra i più rinomati del “periodo veneziano” di Oderzo, porta il nome dell’ultima famiglia che vi dimorò. II primo proprietario, invece, fu il nobile Rossetti, che lo lasciò in dote alla figlia Cristina, sposa di Girolamo Zorzi. Madre di cinque figli e rimasta vedova prematuramente, vendette l’immobile alla famiglia Contarini, che lo usò come residenza estiva e ne rimase proprietaria per circa due secoli: da Alessandro C. passò a Pietro C. (1738-1760) e quindi a sua figlia maggiore Bernadina (1731-1809), la quale sposò Paolo Antonio Condulmer. Il figlio Domenico morì nel 1840 ed essendo l’ultimo del casato diede la proprietà in eredità a Daulo Augusto Foscolo. Nel 1917 l’ultima erede, la contessa Anna Foscolo, abbandonò il palazzo. Negli anni successivi si susseguirono diversi proprietari, per arrivare infine al Comune di Oderzo. Oggi è sede di Fondazione Oderzo Cultura (per maggiori informazioni visita il sito), principale centro culturale della città ed ospita la Pinacoteca Alberto Martini, Museo del vetro d’artista, la GAMCO e l’Ufficio lAT, mentre nella barchessa si trova il Museo Archeologico Eno Bellis. Nonostante i molti restauri e devastante incendio dello scorso secolo, sono tuttora ben conservati gli stucchi dello scalone e delle sale centrali, attribuiti ad Alessandro Vittoria. Il noto scultore trentino curò molti dei busti della famiglia Zorzi; si deduce quindi che la realizzazione di questa parte dell’edificio risalga al XVI secolo. Il giardino, commissionato da Alessandro Contarini tra il 1672 e 1681 insieme alle due barchesse (di cui oggi ne rimane solo una), fu il primo ad essere dedicato solo all’intrattenimento. Gli altri palazzi cittadini erano residenze stabili, quindi il giardino conteneva ciò che era a sostegno della famiglia come l’orto, il frutteto, la stalla ed il pollaio. Chiudete gli occhi ed immaginate com’era il giardino in passato: alcuni ospiti chiacchierano, altri scherzano coi pesci nella peschiera, altri ancora passeggiano tra le numerose statue posizionate qua e là, lungo i sei corridoi o vicino alle barchesse.